Le Opere Letterarie

Nel testo della narrazione della voce guida, sono stati inseriti alcuni brani tratti da queste opere letterarie. Chi li saprà riconoscere? Basta seguire attentamente la voce durante la visita e poi giocare sul sito alla fine dell’Evento per scoprire quanto si è stati bravi!

Grazia Deledda

“Il Paese del Vento”
Il paese del vento, metafora ovviamente della natìa Sardegna, è un luogo dove all’asperità del territorio corrispondono rapporti umani retti da leggi arcaiche e immutabili. Esiste, dunque, una sorta di mistica comunione tra stati d’animo e paesaggio. La scrittura in prima persona, supportata da una struttura linguistico/sintattica sarda e latina, oltre a evidenziare l’autobiografismo conferisce forza e intensità alla narrazione. Parallelamente al percorso interiore compiuto dalla protagonista/scrittrice, seguiamo il viaggio in treno dei novelli sposi fino al paese, segnato dal ricordo ingombrante dell’amante di un tempo. Centrale è la situazione emotiva e psicologica dell’Io narrante, ma è il vento che, acquistando fisicità reale, riesce con la sua forza a decidere il destino delle persone. È necessario, quindi, trovare la capacità di reagire di fronte a un destino apparentemente inesorabile. Il romanzo, pubblicato nel 1931, pur se a volte accostato ora all’opera di Verga ora a quella di D’Annunzio, sfugge in realtà, forse anche a causa della formazione da autodidatta della Deledda, a qualunque ferrea catalogazione di corrente.– “Cenere”

“Cenere”
Cenere è un romanzo di Grazia Deledda, scrittrice italiana e premio Nobel per la letteratura, pubblicato nel 1903 a puntate nel periodico fiorentino Nuova Antologia e nel 1904 a Roma in volume unico. Nel 1916 fu realizzata una riduzione cinematografica con l’interpretazione di Eleonora Duse.
«Oppressa dalla solitudine e dalla miseria, Olì amava il giovane per ciò che egli rappresentava, per le cose e le terre meravigliose che egli aveva vedute… ed egli amava Oli perché era bella e ardente: entrambi incoscienti, primitivi, impulsivi ed egoisti si amavano per esuberanza di vita e per bisogno di godimento»
Una giovane donna, Olì, appare nelle prime pagine del romanzo e ricompare solo nelle ultime per concludere tragicamente una storia di cui rimane protagonista assoluta, pur nascosta dietro il lungo svolgimento di una vicenda d’assenza solo apparente. La ragazza, poverissima e perdutamente infatuata di un uomo bugiardo e già ammogliato, che la illude di poterla un giorno fare sua legittimamente, cacciata di casa a causa dell’imminente maternità, si allontana dal paese e fa sparire ogni traccia di sé dopo aver abbandonato il figlio davanti all’abitazione del padre naturale. Il bambino, Anania, verrà riconosciuto e allevato nella casa paterna, amorevolmente e altruisticamente accudito dalla madre adottiva. In apparenza, il romanzo Cenere gravita attorno alla figura del giovane Anania, il quale, grazie all’aiuto economico di un benefattore, tenta l’affrancamento dal proprio destino di ignoranza e miseria, recandosi prima a Nuoro, poi a Cagliari e infine a Roma, per intraprendere gli studi giuridici. E intanto, nel suo cuore coltiva, ricambiato, un amore dapprima infantile e via via sempre più coinvolgente per Margherita, la figlia del suo padrino. In realtà, tutto il lungo peregrinare di Anania, è indirizzato all’ossessiva ricerca della madre, amata e detestata, dal cui ritrovamento, accompagnato dalla diretta conoscenza della realtà indecente e oscura della sua vita, egli crede di poter trarre liberazione e riscatto. Questo è, alla fine, il vero scopo, la meta parossistica dell’intera esistenza del giovane: ritrovare quella madre spregevole e vile, eppure adorata e rimpianta perché mai interamente posseduta.
La ritroverà disperata, ridotta alla fame e, soprattutto, macchiata da una vita disonesta di cui egli aveva implicita coscienza, ma si era sempre intimamente rifiutato di accettare.
La condannerà e le imporrà di legarsi a lui per un’espiazione comune, autodistruttiva e cieca, in nome di un dovere e di un amore filiale che egli stesso vorrebbe disconoscere.
Olì, suicidandosi, porrà fine alla disperata follia del figlio, che ricongiungendosi a lei aveva deciso la propria condanna a morte di fronte al mondo, all’amore, alla felicità.
La figura di Olì, reale eppure celata protagonista del romanzo, fino alla tragica conclusione che la riporta alla ribalta della storia con tutta la caparbietà di una suprema vocazione al martirio, è l’ombra che oscura la fanciullezza e i sogni adolescenziali di Anania; ma nel darsi la morte, la donna non cerca un riscatto personale, bensì la liberazione del figlio, cui regalerà ancora una volta la vita.
Non a caso, nel discorso pronunciato durante la cerimonia di consegna del Nobel per la letteratura a Grazia Deledda, nel dicembre del 1926, il Prof. Henrik Schuck dell’Accademia Svedese, per sottolineare la malinconica severità, ma non il pessimismo deleddiano, cita proprio un passaggio tratto dal romanzo Cenere: «Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l’uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell’ora suprema, davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso una scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita».
E, sottolineando ancora la motivazione del premio, il prof. Schuck, conclude: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».
Cenere fa parte dei romanzi della maturità artistica e umana dell’Autrice, e in esso sono presenti tutti gli elementi che l’hanno resa famosa e meritevole del Nobel. Primo fra tutti, il perfetto compenetrarsi tra i personaggi con i loro caratteri peculiari e la natura: quel paesaggio sardo che minuziosamente e magistralmente descrive, nel superamento di ogni incertezza linguistica di cui fu più volte accusata, è riempito di sfumature e palpiti vitali che ne rendono l’asprezza e l’aridità, musicali e vivifiche.
La terra sarda, d’altra parte, così scabra e avara, si attaglia perfettamente ai personaggi che l’autrice descrive, e si rivela uno sfondo perfetto per lo svolgimento di una “tragedia classica”. La primitiva e cruda terra di Sardegna diventa così il teatro universale per la rappresentazione di tragedie e drammi che si ripetono, sotto forme diverse, lungo tutto il percorso della storia umana.
E la gente che la Deledda disegna, qui come in tutte le sue opere migliori, costruisce un quadro mirabile di passioni, stoltezze, ingenuità e crudeltà senza colpe: inevitabile risultato di un incoercibile e preordinato allontanamento dall’oscura legge superiore. E tale imprecisa cognizione genera, infatti, soltanto rimorso informe, e mai autentica consapevolezza del male. Illuminato e modernissimo, a questo proposito, il brano in cui si parla del banditismo: «Anticamente gli uomini andavano alla guerra: ora non si fanno più guerre, ma gli uomini hanno ancora bisogno di combattere, e commettono le grassazioni, le rapine, le bardanas, non per fare del male, ma per spiegare in qualche modo la loro forza e la loro abilità».
I personaggi del romanzo, simbolici protagonisti di un mondo arcaico che ancora non lascia spazio al moderno, si muovono portando con sé feroci passioni e brevi fantasie, ma soprattutto la spietata povertà degli uomini e delle cose: quella povertà che accomuna tutto e tutti, anche coloro che possiedono qualcosa: «In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l’abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone… il lamento delle pietre che cadevano a una ad una dai muri neri delle casette preistoriche… della gente che non mangiava… degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino…».
L’Autrice tende, nel progredire della sua arte, a «scavare sempre più nelle anime», come sostiene Petronio, e a «schematizzare la vita in un conflitto tra bene e male» anche se, pur nell’ebbrezza del peccato, la coscienza non si abbandona interamente al male. Questo perché del male non ha intima cognizione. Approfondimento della coscienza morale, dunque, più che psicologica. Nulla in comune tra i suoi personaggi femminili e quelli di Sibilla Aleramo, sua contemporanea ma, a differenza della Deledda «che si è sempre tenuta lontana dalle lotte della sua epoca» (Schuck), così impegnata socialmente e politicamente.
«Io sono del passato», amava dire di sé Grazia Deledda, e ad un passato antichissimo legava i suoi personaggi, «… pur veri e reali. Non burattini da teatro» (Schuck), implacabilmente trascinati dall’ineluttabilità del destino e da sentimenti ancestrali, frutto di una civiltà cruda e ancora primitiva.
La lingua, che non ripiega troppo su residui romantici, né ammicca al modernismo dannunziano, spesso risulta ruvida e scarna, quasi come la natura cara all’Autrice che talvolta indugia a descrivere con appassionata pignoleria. E si può dire che proprio la terra natìa, con il suo paesaggio selvaggio, comune denominatore di quasi tutte le opere, risulti protagonista silenziosa e onnipresente e, infine, governatrice di ogni umana determinazione.

“Noi siamo Sardi”

Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,
romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.

Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono
sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.

Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo,
lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.

Siamo il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i graniti antichi,
della rosa canina,
del vento, dell’immensità del mare.

Siamo una terra antica di lunghi silenzi,
di orizzonti ampi e puri, di piante fosche,
di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.

Noi siamo sardi.

 

 

Elio Vittorini

“Sardegna come un’infanzia”

«Sardegna come un’infanzia» di Elio Vittorini è un classico della letteratura di viaggio che ha per oggetto la Sardegna. Si inserisce in un percorso che ha avuto inizio alla fine del Settecento e non si è ancora chiuso. In particolare alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento l’isola diventa meta privilegiata di viaggiatori d’eccezione, poeti, narratori, giornalisti, fotografi (tra gli altri D’Annunzio, Pascarella e Scarfoglio, Cardarelli e Quasimodo).
Nei loro scritti il viaggio in Sardegna è ricerca del «diverso» (nostalgia dell’infanzia, desiderio di felicità perdute, ricerca delle radici inquiete dell’essere) mediante «l’altrove»: una terra che appare diversa da tutte le altre, quasi «sfuggita alle maglie della civiltà europea» (scrive Lawrence).
La genesi di «Sardegna come un’infanzia» è occasionale. Nel 1932 il settimanale «Italia letteraria» promuove una crociera in Sardegna. Un’iniziativa culturale e turistica insieme. Scrittori e artisti vengono sollecitati a visitare «a buon mercato una bella regione»: otto giorni di mare e di terra al prezzo di seicentocinquanta lire. In più viene istituito un premio letterario per il diario di viaggio più bello. Al vincitore spetteranno cinquemila lire e la pubblicazione del lavoro sulla rivista. L’intento segreto dell’iniziativa, secondo Manlio Brigaglia, è quello di portare alla conoscenza di un buon numero di intellettuali di spicco le opere realizzate nell’isola dal Regime, dalla diga sul Tirso alla bonifica di Mussolinia.
Il viaggio si svolge dal 18 al 28 settembre del 1932, con partenza da Civitavecchia su una nave della Tirrenia: l’itinerario tocca Terranova (l’odierna Olbia), Tempio e la Gallura, l’Anglona, Sassari, Macomer, Nuoro, Oliena, Oristano e Mussolinia d’Arborea, Iglesias, Cagliari, poi Sant’Antioco e Carloforte, Porto Torres, Palau, La Maddalena. L’arrivo dei crocieristi (25 per l’esattezza) suscita scalpore. Sulle pagine dell’«Unione», il 22 settembre, Raffaello Delogu scrive che, per la prima volta nel corso dei secoli, «una carovana di intellettuali» approda spinta da un «sottile senso di amore verso la leggendaria e quasi mitica terra del mare». La Giuria (Grazia Deledda, Silvio Benco e Cipriano Efisio Oppo) attribuisce il primo premio, ex equo, a Vittorini e Virgilio Lilli. Ma mentre l’opera di Lilli, di taglio giornalistico, vivace e nervosa, ha scarsa circolazione (nel 1999 è stata ristampata da Delfino), il diario di Vittorini, intensamente lirico, viene rielaborato e arricchito nel corso degli anni. Apparso per la prima volta su «Italia Letteraria», in due densissime paginette, è pubblicato nel 1936 da Parenti, con il titolo «Nei Morlacchi Viaggio in Sardegna» e nel 1952 da Mondadori con un nuovo titolo significativo, «Sardegna come un’infanzia». Piccolo gioiello, per intensità e raffinatezza, ha larga fortuna fra il pubblico e un ruolo importante nel percorso artistico di Vittorini. In apparenza è un libro reportage, costruito con capitoli brevi, quasi frammenti. In realtà lo schema aperto del viaggio ne fa un’opera dalle molte sfaccettature: cronaca, descrizione di personaggi e di paesaggi, poema in prosa. Segnali interni al testo sono alcune immagini-emblema, che denotano l’influsso culturale della Ronda e di Emilio Cecchi: gli uccelli di mare «palpitano come scossi da morte. E abbracciano invisibili compagni»; le querce da sughero scortecciate, con i tronchi sanguinanti e l’albero, su, dove è ancora un albero, si liscia nelle sue foglie, con l’ossessione di un uccello ferito […]».
Ma «Sardegna come un’infanzia» va al di là della Ronda per «un’intemperanza nuova», una «spavalderia più vicina alla vita», la necessità di «avvicinarsi alla solitaria essenza delle cose» (Geno Pampaloni). Il viaggio è inteso come ricerca di un mondo vergine, anzi come scoperta originaria del mondo: «Ma quanto desiderio di avere cose! Non soltanto mare e non soltanto sole […]. Terre anche! Isole […]. Il mondo è deserto attorno e in quell’aria creata appena tutto è diverso da ieri, ignoto a me, e una nuova terra m’assale».
Il viaggio è anche ricerca delle memorie infantili, degli archetipi. Anzitutto il mare, l’acqua, elemento sacro, primordiale: «Si ha quasi il senso d’essere entrati in un mare d’altipiano e di navigare in ascesa: verso l’estremo tetto dell’universo». Cosi l’arrivo a Terranova.
Le chiavi di lettura della Sardegna sono la solitudine e la primitività: il passo dei sardi è «il passo degli aborigeni sulla loro terra». Gli elementi della realtà, descritti attraverso l’accensione delle percezioni sensitive trasmesse dalla vista e dall’udito sono dilatati in nuclei lirici. Sardegna è anzitutto un odore: «del sole. Di fuoco puro, privo d’ogni acredine di combustibile. E di pietra secca. Ma di brughiera anche. E di spoglie di serpi». Ma soprattutto Sardegna è solitudine: «di ogni cosa, di ogni rupe che par chiusa in se stessa meditando, e d’ogni albero o viandante che s’incontra, e per questa luce, e per quest’odore di mandrie in cammino; assai al di là dell’orizzonte».
Vi sono i segni, inevitabili, della civiltà moderna, ma alterati da un’inquieta latenza primordiale: «Il trenino col suo incredibile fischio da capraio […]. Sembra corra in libertà, facendosi il binario via via». Anche le città sono mitiche. Tempio, è una «città di nuraghi», costruita «duemila anni fa».
Solo i vani delle porte e delle finestre, dipinti di calce o d’azzurro, adornano «come di lievi terracotte» le sue case di granito. Sassari «arcaica e spagnolesca», è simile al quartiere di un’immensa città di colore che sfuma in sobborghi di tende e di capanne. Il Circolo sassarese, con i suoi dignitari in gardenia e le dame col ventaglio piumato, rivela «un gusto da piccola civiltà per conto suo che ha importato dall’Europa quanto è decoro mondano».
Nuoro è «il villaggio-capo, sebbene prefettizio, città come questi cuori aborigeni possono concepire». Cagliari è diversa da tutte le città conosciute e immaginate: «Fredda di pietra e d’un giallore calcareo africano […] ma non è Africa. È ancora più in là dell’Africa; in un continente ulteriore, dove sia città essa sola». Persino gli esseri umani, nella loro solitaria regalità, partecipano di una dimensione mitica.
A Caprera Vittorini non si commuove di fronte alla tomba dell’Eroe ma di fronte alle casette a un piano costruite da Garibaldi: «Non fu retorica ritirarsi qui, da Cincinnato. […] Venne a farsi re in Sardegna, anche lui come Brancaleone Doria […] e c’era il piacere di un ragazzo, in lui, che gioca a Robinson. L’aratro; il banco da falegname, la barca».
La tensione lirica non impedisce a Vittorini di volgere lo sguardo su parti di «mondo offeso»: i minatori di Iglesias («Ho visto il nulla della fatica quotidiana. Fatica che serve a un tozzo di pane e tozzo di pane che serve alla fatica. Come di schiavi, in una cava cartaginese»). Nelle terre bonificate di Arborea il «vecchio cuore senza speranza» dei sardi riprende a battere con entusiasmo al pensiero che la malaria possa essere sconfitta e la terra acquitrinosa possa diventare fertile.
Con la fine del viaggio si chiude una parabola: una possibilità di vita meravigliosa, come «un’infanzia».
Alla Giuria il libro piacque, ma non al punto da ottenere in assoluto il primo premio. Le motivazioni della scelta mettono in evidenza una «natura molto interessante di artista», ma anche l’intento costante di trasferire la realtà su un piano letterario, l’intervento nella narrazione «con eccessiva prepotenza» di una personalità forte. Vittorini, invece, amava questo suo lavoro al punto da collocarlo, insieme a «Conversazioni in Sicilia» e «Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus» fra i libri scritti «con piacere».
«Sardegna come un’infanzia» apre la strada a «Conversazioni in Sicilia», il romanzo, quasi leggendario, che innova la letteratura del ‘900 per la tensione etica e civile, con cui scopre il Meridione, e per la raffinatezza stilistica. All’opera più matura offre anche il modello narrativo: il viaggio inteso come ricerca esistenziale, come ritorno alle origini. Oggi, a più di cinquant’anni dall’edizione mondadoriana del 1952, il diario di viaggio di Vittorini non solo mantiene intatto il fascino della pagina scritta, ma offre una chiave di lettura della Sardegna (il «mondo offeso» e il mito) con la quale dobbiamo fare ancora i conti, in tutti i sensi.
Paola Pittalis

 

 

Carlo Levi

“Tutto il miele è finito”
Carlo Levi visita per la prima volta la Sardegna qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel maggio del 1952. Cagliari mostra ancora i segni dei bombardamenti, tra le rovine del teatro romano vivono famiglie di sfollati. Dieci anni dopo, nel dicembre del 1962, tornerà sull’isola, quasi riprendendo un discorso interrotto. Tutto il miele è finito è il diario di questi (questo) viaggio.
Levi è sulle tracce di un altro scrittore D.H. Lawrence che aveva, prima di lui, raccontato un suo breve soggiorno sardo. Ne cerca i segni nelle locande descritte dall’inglese nel suo resoconto Mare e Sardegna. Ne apprezza la scrittura poetica e visionaria anche se non condivide il tono severo e altezzoso verso la gente del posto.
Ritrova a Cagliari i segni della presenza, coloniale, piemontese. Là dove comincia la strada per Porto Torres (ancora oggi conosciuta con il nome di chi la fece costruire) è la statua di Carlo Felice. C’è chi crede sia l’effige d’un santo e, passando, si segna.
Carlo Levi si inoltra in una regione in cui i segni del mondo moderno (le miniere e la mussoliniana Carbonia, città di fondazione, ghetto minerale denza radici e senza passato) affiancano il mondo arcaico dei pastori. Come lo sottolinea Giulio Ferroni nella prefazione al libro, nel racconto dello scrittore lo spazio naturale è sempre in relazione con il la percezione del tempo, tempo storico che diventa tempo cosmico. Levi osserva i segni di un passato mitico per ritrovarli in un presente nel quale l’arcaico sembra come depositato: Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare. Nella presenza dell’arcaico ogni conoscenza è riconoscenza.
Il suo viaggio lo porta fino ad Orgosolo, paese dei briganti, nel quale i carabinieri si muovono come in luogo nemico quasi come in una colonia ribelle, in preda alla tragedia della disamistade.
Lo affascinano i gesti ancestrali trasmessi dalla tradizione come la cottura del capretto, con la palla di grasso incandescente per terminarne la rosolatura (aveva letto la descrizione della cerimonia nel libro di Lawrence), il funerale del muratore a Orgosolo o ancora inuraghe con il loro alone di mistero ancora oggi irrisolto:
Dentro il nuraghe c’è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza l’intervento dell’immaginazione o lo sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell’infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza. Ben protetti da queste mura gigantesche, se ne sentono tuttavia gli indeterminati terrori, e il senso dell’arcaica crudeltà di questi uomini arcaici, asserragliati nelle torri, in una natura crudele.*
Levi osserva la Sardegna, ascoltando le voci di un popolo e quelle di una terra che ha saputo conservare e tramandare ancora poesia e cultura malgrado la durezza di una vita povera e difficile.

 

H.D. Lawrence

“Mare e Sardegna”

“Si sente la necessità assoluta di muoversi. E soprattutto di muoversi in una direzione particolare. Una doppia necessità: muoversi e sapere in che direzione.”
Con queste parole D.H. Lawrence introduce la sua opera del 1921 “Mare e Sardegna”. Nell’inverno dello stesso anno lo scrittore e la moglie intraprendono un viaggio in Sardegna, approdando a Cagliari e risalendo l’isola fino a Terranova (Olbia).
E visto che l’estate è alle porte, perché non approfittare delle bellezze che l’Isola offre anche al suo interno e avventurarsi in un itinerario culturale, ricalcando quello descritto dallo scrittore inglese?
Così come fecero Lawrence e sua moglie, l’ideale sarebbe arrivare in traghetto e godere della magica vista dell’isola che affiora all’orizzonte.
“Quando salimmo su, una sagoma indistinta di terra apparve davanti a noi, più trasparente di una sottile perla. E’ già la Sardegna. Sono magiche le regioni montuose viste dal mare, quando sono molto, molto lontane, e spettrali e trasparenti come gli iceberg. Questa era la Sardegna, che appariva in lontananza come ombre seducenti in mezzo al mare. […] Davanti a noi era il sereno mattino e lo scintillio della scia della nostra nave, come quella di una lumaca, che si trascinava sul mare.”
La città di partenza è Cagliari.
“E improvvisamente ecco Cagliari: una città nuda che si alza ripida, ripida, dorata accatastata nuda verso il cielo dalla pianura all’inizio della profonda baia senza forme. E’ strana e piuttosto sorprendente, per nulla somigliante all’Italia. La città si ammucchia verso l’alto, quasi in miniatura, e mi fa pensare a Gerusalemme.”
Una volta a terra, visitare la città è d’obbligo. Dal porto si aprirà davanti a voi il Largo Carlo Felice, alla cui base si ergono bianchi e imponenti il Palazzo Municipale e quello della Rinascente lungo la via Roma. Questo è il limite sud del quartiere Marina . Prendendo il Largo si arriva a Piazza Yenne , da cui le stradine interne si inerpicano fino al colle su cui sorge il quartiere Castello . In sardo, Cagliari viene per l’appunto chiamata Casteddu (castello).
Passeggiando per le vie del quartiere, cercate la Cattedrale in Piazza Palazzo, le Torri Pisane e arrivate fino al Bastione di Saint Remy. Dalla terrazza del Bastione lo sguardo si estende quasi a 360 gradi sulla città: alla vostra destra il golfo di Cagliari e davanti a voi lo stuolo di tetti colorati che vanno via via scemando fino alla spiaggia del Poetto, sotto la Sella del Diavolo.
Il viaggio di Lawrence continua in treno, sul binario della ferrovia a scartamento ridotto che congiunge Cagliari al cuore della Sardegna (Sorgono) e alla costa est (Arbatax). La prima tappa del viaggio dei coniugi Lawrence si conclude a Mandas: da qui è possibile continuare verso il centro o verso l’est grazie al percorso sul trenino verde . Gli itinerari fattibili su questo trenino, che sembra essere stato catapultato da un’altra epoca, sono tanti. Date un’occhiata alle pagine dedicate nel sito promosso dallaRegione Sardegna per scegliere quello che vi ispira di più.
Si tratta di un viaggio speciale nel cuore dell’Isola, che non è più solo spiaggia e mare:
“La Sardegna è un’altra cosa: più ampia, molto più consueta, nient’affatto irregolare, ma che si perde in lontananza. Catene di colline simili alla brughiera, irrilevanti, che corrono via, forse verso un gruppetto di cime drammatiche a sud-ovest. Questo dà una sensazione di spazio che tanto manca in Italia. Incantevole spazio intorno a un individuo, e distanze da viaggiare, nulla di finito, niente di definitivo. È come la libertà stessa…”

Valery

“Viaggio in Sardegna”

Valery è lo pseudonimo di Antoine-Claude Pasquin, conservatore delle biblioteche del re nel palazzo di Versailles e di Trianon, sia sotto il regno di Carlo X di Borbone (1824-30) sia sotto quello successivo di Luigi Filippo di Borbone Orléans (1843-48).
Il suo “Viaggio in Sardegna” occupa il secondo volume di un progetto più corposo, che come altri a lui contemporanei prevedeva il resoconto dei viaggi compiuti nelle principali e più inesplorate isole del Mediterraneo, dal titolo “Voyages en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne”.
Valery giunge nell’isola alla fine di aprile del 1834 e vi si trattiene per circa un mese e mezzo, percorrendola, dopo essere sbarcato a La Maddalena, da nord a sud e ritorno, per un totale di oltre ottanta tappe. Dotato di vasta cultura, egli giunge nell’isola ispirato da quei sentimenti di riscoperta romantica del passato che già molti prima di lui vi avevano attirato, e che permea il suo approccio alla conoscenza di una realtà nuova ed estremamente diversa: d’origine romantica è non solo la sua percezione dei paesaggi e della natura, ma anche l’entusiasmo verso l’uomo e le sue manifestazioni culturali che sono espressione del passato, della valorizzazione di quel sentimento di “origine” che è parte dello storicismo romantico.
Egli è un viaggiatore accorto, ispirato, che nota le cose e se ne lascia coinvolgere, che asseconda lo stimolo alla meditazione che gli offrono un panorama, una fontana di acqua cristallina, una distesa di frutti succulenti, fino ad inebriarsene. Compie gran parte del suo viaggio nel mese di maggio e vede forse ciò che di meglio la natura offre, ma anche la primavera della gente per la quale “il mese di maggio in Sardegna è una festa perpetua”; le sue tappe nei vari paesi sono costellate di riti e processioni, parate sacre che si fondono con le corse di cavalli, le gare poetiche, le fiere di bestiame.
La sagra di Sant’Efisio (descritta nel viaggio di ritorno) è la festa più solenne ma è anche “il più singolare degli spettacoli per la ricchezza, la varietà dei costumi, l’allegria dei balli, e la gioia degli abbondanti spuntini sull’erba”. Il sacro e il profano sono raccontati all’interno di una cornice mutevole, che è quella del cambiamento politico, della speranza di abolizione del feudalesimo, evento che il viaggio di Valery coglie nel pieno del suo svolgimento, e al quale affida le sorti dello sviluppo tecnologico e sociale.

 

Enrico Costa

“Adelasia di Torres”

Adelasia di Torres, romanzo storico di Enrico Costa, pubblicato a Sassari nel 1898 dall’Editore Giuseppe Dessì, è ambientato nel XIII Secolo, periodo in cui la Sardegna è divisa in Giudicati, momento di massima Autonomia Politica. In questo intricato periodo, regna la Giudicessa di Torres, Donna Regale, avvolta nella Leggenda, nella dimensione social dell’essere Regina, che, a sua volta, è Adelasia, Persona Reale, Sposa e Madre, in balia degli eventi, degli amori travagliati, degli abbandoni, della Solitudine. Adelasia di Torres è una delle figure femminili più interessanti e drammatiche della storia sarda, la cui vicenda personale, avvolta ancora oggi nel mistero, ha suscitato l’interesse di numerosi studiosi e scrittori.
Anche Grazia Deledda rimase affascinata da questa enigmatica donna, tanto da renderla protagonista della celebre novella “Sigillo d’amore”, che la scrittrice premio Nobel scrisse pensando proprio all’opera di Enrico Costa, del quale fu a lungo una discepola. In “Adelasia di Torres” il Costa narra la vicenda storica, e quella leggendaria, della giudicessa sarda vissuta nel Duecento, moglie di Enzo (o Enzio) figlio dell’Imperatore Federico II, la cui vita, aperta colle nozze di Ubaldo Visconti e chiusa colle baratterie di Michele Zanche, attirò l’attenzione dei cronisti, degli storici, dei poeti e dei novellieri che si succedettero nel corso di quasi sei secoli, a cominciare dai primi commentatori di Dante.

 

Francesco Cesare Casula

“Eleonora D’Arborea”
Ricostruzione storica molto attenta che de-mitizza la giudichessa di Arborea ma che cerca di restituirne un’immagine molto più veritiera rispetto alle leggende che hanno sempre avvolto la sua figura.
Sarà  F. C. Casula a individuare l’immagine autentica di Eleonora nel 1984 quando la ritrovò effigiata nei peducci pensili della volta a crociera dell’abside della chiesa di San Gavino Martire in San Gavino, insieme al busto del padre Mariano IV, del fratello Ugone III e del marito Brancaleone Doria.
La giudicessa-regina, non solo non è bellissima, come l’immaginario collettivo ci consegna ma è brutta e per di più ha il volto sfigurato da una vasta cicatrice, che sempre lo storico Cesare Casula, suppone sia il prodotto di uno schizzo di olio bollente, da cui sarebbe stata colpita da bambina.
Del resto, a nutrire qualche dubbio sulla bellezza di Eleonora è persino il suo più grande celebratore, Camillo Bellieni, storico e intellettuale di gran vaglia, nonché fondatore, insieme a Lussu, del Partito sardo d’azione. Ecco quanto scrive in una celebre monografia sulla giudicessa: “Eleonora non si può avvicinare alle ideali figure di Madonna, dai capelli biondi e dagli occhi cerulei”.